La Turchia ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, detta anche “Convenzione di Istanbul“, trattato firmato nel 2011 da 30 Paesi (primo fra tutti proprio la Turchia) ampiamente riconosciuto come lo strumento giuridico più ambizioso volto a prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica quali violazioni dei diritti umani. Il protocollo, che fu redatto proprio nella principale città turca, impone ai governi di adottare una legislazione che persegua una serie di delitti caratterizzati da violenza contro le donne: la violenza psicologica, gli atti persecutori (stalking), la violenza fisica, la violenza sessuale, compreso lo stupro. Ma anche il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali. La Convenzione prevede anche un articolo che prende di mira i crimini commessi in nome del cosiddetto “onore”.
Il ritiro del governo turco dalla Convenzione di Istanbul è una sconfitta che riguarda tuttə. Le donne turche saranno prive di tutele all’interno di un paese in cui la media attuale è di 3 femminicidi al giorno. In un sistema sociale che educa le donne al sacrificio e la passività, la consapevolezza che anima le coscienze e rende vive le voci, soprattutto nella Turchia di Erdoğan, rappresenta un grosso intralcio al controllo dei diritti fondamentali.

Ma perché ritirarsi da una Convenzione che protegge le donne? Per l’Akp, il partito conservatore al governo, la Convenzione di Istanbul danneggia l’unità familiare, incoraggia il divorzio e include riferimenti all’uguaglianza che possono essere strumentalizzati dalla comunità Lgbtiq+. Un’azione coercitiva “giustificata” dal tentativo di preservare la sacralità della tradizione e ridurre il numero dei divorzi, anche quando la tradizione significa disparità, violenza, perdita di dignità, controllo.
Il bisogno di sedare le donne adesso è più forte, perché più forte è la resistenza.
E la resistenza non ha tardato, le manifestazioni più numerose si sono svolte a Kadiköy, la roccaforte laica dove si sono dati appuntamento diversi movimenti femministi, Ong e partiti per combattere quella che è definita una «dichiarazione di guerra alle donne». Si contano circa 266 donne uccise lo scorso anno nelle loro case, nonostante non ci siano dati documentati e le associazioni ne valutino almeno 100 in più. L’opacità di questa contezza statistica ricade su una scelta mirata del governo, che dal 2009 non fornisce numeri ufficiali sui delitti in base al genere.

In Turchia esistono leggi a tutela delle donne ma non sono applicate. Molte sono scomparse nell’ultimo decennio come quelle sugli alimenti e sul diritto a ereditare. Alcune hanno subito dei mutamenti in negativo: l’età del consenso è passata da 18 a 12 anni. Erdogan si preparava già da tempo ad uscire dalla Convenzione. Il vicepresidente turco, Fiat Oktay, ha detto che il ritiro dalla Convenzione è la soluzione per «elevare la dignità delle donne turche» è «nelle nostre tradizioni e nei nostri costumi», non nell’imitazione di esempi esterni.
Da piccola, anche adolescente, il dispiacere nei confronti di violazioni così gravi in me era molto lieve, quasi anestetizzato, non riuscivo a sentirlo, non mi faceva male. Per quanto il sentimento di giustizia abitasse in me da sempre, era coperto, non riuscivo a vederlo. Ora ne sento i colpi e il male che ne deriva. Crescere con la consapevolezza che quello che succede in luoghi che non sono il tuo succede “anche a te” non è alleviante, non è ameno né conveniente ma tiene in vita la coscienza, è qualcosa che fai per te stessə. Indignarsi per i torti non subiti è manifestazione di umanità.
Ciò che è successo in Turchia scrive una pagina buia della storia dei diritti e la lotta alla violenza contro le donne, è un’ombra fredda su un sentiero illuminato che genera un’enorme crepa nell’Europa dei diritti.
Grazia