“Chi sei?” “Una volta ero un sacco di cose, ora non so più chi sono.”
(We are who we are – Luca Guadagnino)
Clarice Lispector ci dice che “perdersi è anche cammino”. Nella vita c’è chi costruisce le proprie strade, chi segue le orme, chi inizia seguendo le orme di qualcuno e poi si perde, decide di perdersi. Nei nostri percorsi di vita quante volte, esattamente, ci concediamo la possibilità di non avere delle risposte? Poche. Nei nostri innumerevoli tentativi di concludere i nostri autoritratti poche volte consideriamo l’idea di poter modificare il disegno iniziale. La serie di cui vi parlo oggi ci insegna che si può fare.

“We are who we are” è un prodotto HBO e Sky, una miniserie che ci mostra quanto i nostri percorsi siano soggettivi, dinamici, assolutamente incoerenti. La fluidità alla quale poniamo così tanta resistenza è senza dubbio la sensazione che questa serie mi ha concesso. Perché “concesso”? Semplicemente perché la possibilità di cambiare idea, o anche di non averla, non è qualcosa che ci hanno insegnato. La coerenza è un’arma a doppio taglio, ci dice chi siamo ma può anche togliercene la possibilità. Questo prodotto, primo lavoro in tv per il regista Luca Guadagnino, è un affascinante viaggio dentro i percorsi umani, che partono dall’adolescenza, è un cammino liquido che in poche puntate può capovolgere il senso delle cose, delle convinzioni, delle idee macchinose che apprendiamo sulla vita, le relazioni, l’immagine di noi stessi.
La serie è ambientata nel 2016, poco prima dell’elezione di Donald Trump, in una base militare americana a Chioggia, in Veneto. Gli apparenti equilibri si rompono quando alla base arriva il nuovo comandante, Sarah, con la compagna e il figlio Fraser. La scelta dell’ambientazione è molto interessante, una base delle Nazioni Unite, un vero e proprio mondo a sé, quasi ovattato, distante dal resto della società. La ricerca di una libertà personale avviene dentro una base, in cui i soldati e i volontari seguono delle regole. Forse la scelta riflette proprio un contrasto quasi necessario alla diversificazione, ad una ricerca della propria autenticità legata agli ostacoli che costantemente limitano la nostra esplorazione o, forse, Guadagnino fa una scelta provocatoria, mirata alla realtà italiana, che forse non è ancora pronta per un prodotto così innovativo e “profano” dato il bisogno di ambientare la serie “all’interno di un sottoinsieme”.
Una delle figure centrali della miniserie è certamente quella di Fraser (figlio del nuovo comandante), che sviluppa un legame speciale con Caitlin, la figlia di un graduato trumpiano. Da qui in avanti We are who we are approfondisce il rapporto fra Fraser e Caitlin e la loro relazione con l’esterno, mettendo in scena quel misto di paura ed entusiasmo, ansia e voglia di non essere solo spettatori della vita, che è così tipico dell’adolescenza. Nonostante il centro gravitazionale sia questo legame che tende a mutare, permettendo ai protagonisti di scoprirsi e sperimentarsi grazie ad un aiuto reciproco, all’interno di questi otto episodi si snodano diverse storie, che fanno emergere tematiche e spunti riflessivi molto attuali, permettendoci di sviluppare un’idea soggettiva e non massificata dei percorsi individuali, della vita che cambia, delle scoperte che hanno a che fare solo e unicamente con noi stessi.

Uno degli elementi del linguaggio non verbale che ci viene regalato in questa serie è la scelta dell’abbigliamento. Fraser mostra la sua personalità eccentrica, in una scelta molto fluida e appariscente del suo vestiario, al quale tiene molto. Caitilin veste abiti sportivi, molto inclini alla sua personalità, indipendentemente dalla percezione della sua identità di genere. Entrambi i protagonisti sviluppano una sorta di identificazione con gli ambienti che respirano fin da bambini e questo incontro li porterà ad intraprendere un percorso che interromperà in qualche modo questo processo di identificazione con le figure di riferimento, rendendoli liberi di capire “chi sono”.
“Che musica ti piace?” “Non lo so. Non ne capisco di musica” “Come non lo sai? Sei sempre con quel coso nelle orecchie” “Non significa che ne capisco. So cosa mi piace e cosa non mi piace”
Questo è un dialogo tra Caitilin e il padre, nella sua banalità molto significativo e molto in linea con i grandi interrogativi che il film permette di porci. Dobbiamo sempre sapere come identificarci? Dobbiamo necessariamente avere dei gusti ben definiti nei tempi prestabiliti? Ammesso che ci sia un tempo per stabilirlo, un tempo uguale per tutti. Questa serie ci parla di una ricerca di sé anche relativa alla nostra identità di genere, che può contenere delle moltitudini, che non è statica, che non è ovvia e che, contrariamente a quanto ci fanno credere, non prescinde dal raggiungimento della nostra autenticità. La repressione di ciò che percepiamo di essere, di chi amiamo o da chi siamo attratti, ha molto a che fare con “tutto il resto”. Essendo questa una serie per me molto introspettiva, una serie che fa da “specchio” alla vita di ognuno, non voglio dire altro, se non consigliarvi di concedervi il piacere di guardarla, e di guardarvi.
Grazia