L’uomo è un “animale sociale”, la sua crescita, la sua formazione, l’interiorizzazione della sua immagine non può prescindere dal contesto, i rapporti umani, i costrutti sociali in cui è immerso dalla nascita. I processi di socializzazione rappresentano un momento decisivo per la costruzione della nostra autostima e la nostra personalità e le figure con le quali entriamo in contatto, siano essere familiari, amici, professori, società esterna influenzano il nostro pensiero fino ad insinuarsi nella concezione che noi arriviamo ad avere di noi stessi. Una concezione che, spesso, è tesa a soddisfare le aspettative altrui, come fosse “modellata”.
Uno dei meccanismi che, purtroppo, la storia ci ha impartito è relativo alla visione dell’essere umano sulla base delle sue caratteristiche fisiche come, ad esempio, il colore di pelle. Come sappiamo, e i tempi odierni ancora ce lo insegnano, il razzismo è qualcosa di radicato nell’immaginario collettivo di una consistente fetta di popolazione. Dal momento in cui qualcuno ha stabilito che l’essere “nero” costituisse un fattore denigrante e di inferiorità, l’uomo ha iniziato a crederci quasi come fosse una scoperta scientifica. L’assenza o la scarsità di modelli positivi in cui identificarsi e la malsana tendenza a sottolineare la diversità sulla base di una caratteristica fisica, che ha sempre reso l’uomo nero in qualche modo “deviante” rispetto all’uomo bianco ha avuto e, paradossalmente, ha ancora delle ripercussioni sui livelli di autostima e accettazione di se stessi.
La società decide dove creare uguaglianza e diversità. Nonostante le numerose lotte sociali per l’eliminazione della segregazione razziale e il raggiungimento di un’uguaglianza formale e reale, ancora oggi si continuano a perpetuare gravissime violazioni di diritti umani, come gli omicidi, per lo più rimasti impuniti, compiuti dalla polizia nei confronti di uomini e donne appartenenti alla comunità nera, che è stata costretta a reagire dando vita al movimento del “Black Lives Matter”.

Il razzismo, come ben sappiamo, ha radici antichissime ed è stato oggetto di numerose lotte sociali. Ma cosa succede quando la società, attraverso l’imposizione dei suoi costrutti sociali, si insinua nella mente di chi quelle lotte le porta avanti per preservare la propria libertà? L’esperimento della bambola, noto come “Doll Test” può rispondere a questa domanda.
Negli anni ‘40, i coniugi Kenneth Bancroft Clark e Mamie Phipps Clark, psicologi afroamericani impegnati attivamente nella lotta alla segregazione razziale, condussero uno studio sui bambini afroamericani, noto come “Doll Test” (“Il test della bambola”), per testare la visione di se stessi all’interno del contesto americano, in particolare in relazione al loro ambiente scolastico, il più delle volte contaminato da razzismo e odio razziale. I loro studi, infatti, trovarono una differente risposta dai bambini afroamericani che frequentavano scuole segregate a Washington DC rispetto a quelli che frequentavano scuole integrate di New York. Il test sulla bambola consisteva nel mostrare ai bambini presi in esame due bambole, una nera e una bianca, che differivano esclusivamente per il colore della pelle e per i capelli, ponendo loro delle domande volte a determinare la loro percezione sulla razza e la loro preferenza (ad es. con quale bambola avrebbero preferito giocare, chi era più bella, chi era buona o cattiva). Quasi tutti i bambini identificarono con facilità la razza delle bambole, tuttavia, quando venne chiesto loro di indicare la bambola che preferivano, la maggior parte di loro scelse quella bianca, alla quale attribuiva caratteristiche positive.

I coniugi Clark presentarono loro anche le 13 sagome disegnate di alcuni bambini e chiesero loro di colorarle con la loro carnagione. Molti dei bambini scelsero di riempire le sagome con matite bianche o gialle. I coniugi Clark giunsero quindi alla conclusione che elementi quali il pregiudizio, la discriminazione e la segregazione di cui i bambini neri erano vittime e con cui si confrontavano quotidianamente, li portava a sviluppare un senso di inferiorità e inconscio rigetto della propria immagine, quasi come avessero “interiorizzato il razzismo” fino a quasi odiare se stessi.
Dopo gli anni ’40, lo stesso esperimento fu ripetuto nel 2005 da una studentessa di 17 anni, Kiri Davis. Il risultato fu pressoché identico. Quando la studentessa chiese ad una delle bambine il perché avesse scelto la bambola bianca alla domanda “quale è la più bella?”, lei rispose: “perché è bianca”. Qui vi propongo un video che “Fan Page” ha voluto riproporre in Italia, una prova che probabilmente il mondo necessità di una lotta poderosa per scardinare quei modelli culturali che “fanno del male a noi stessi”.
Un pensiero su “Il “Doll Test” ci spiega cos’è il razzismo interiorizzato”